Edulcorato ad uso dei bambini nell'età dei "perché" – ai quali non è possibile spiegare che le magagne dell'umana società continuano a persistere 200 anni dopo essere state così formidabilmente descritte da Swift ("perché", direbbero, "papà e mamma, perché ci sono queste magagne?") – e abbandonato dai ragazzi in quanto visto come un raccontino puerile, "I viaggi di Gulliver" [1] merita una rilettura nell'età nella quale le illusioni della giovinezza lasciano il posto a consapevolezza e realismo.
Se nel primo capitolo del libro, "Un viaggio a Lilliput", un Gulliver gigante tra i lillipuziani ci fornisce un assaggio delle magagne dell'umana società, è nella seconda parte – "Un viaggio a Brobdingnag", con Gulliver diventato ora l'equivalente di un lillipuziano tra i giganti – che arriva, al termine del capitolo VI, il grande botto: nel quale la critica incalzante al malandare supera i limiti del contesto politico e sociale specifico in cui viveva Swift per approdare alla universale applicabilità dell'amara conclusione.
Tutto ruota attorno alle cinque udienze che il re di Brobdingnag concede a Gulliver per consentirgli di descrivere al meglio usi, costumi e storia della società da cui proviene [2]:
"S'immagini dunque il lettore quanto rimpiansi di non avere il genio e l'eloquenza di Demostene o di Cicerone, per poter decantare i meriti e le glorie della mia cara patria in modo degno di lei. Cominciai dunque col dire al re che il nostro paese si componeva di due isole che formavano tre potenti regni uniti sotto un solo sovrano, e ciò senza contare le colonie d'America; e insistei molto sulla fertilità della nostra terra e la bontà del nostro clima.
Passai quindi a descrivere la costituzione del parlamento, diviso in due corpi legislativi, l'uno dei quali, chiamato Camera dei Pari, era composto di nobili signori, padroni delle più belle terre del regno. Accennai alle cure con cui erano educati nelle scienze e nelle armi, perché fossero degni del destino che li faceva consiglieri nati del governo, e potessero partecipare all'amministrazione, entrare nell'alta Corte di Giustizia che non ammette appello, essere insomma i migliori difensori del re e della patria per la fedeltà, l'onestà e il valore loro; assicurai che questi signori formano l'orgoglio e il presidio dello stato, come degni successori dei loro antenati ai quali l'alto titolo era stato dato in ricompensa delle loro imprese.
Parlai di quei santi uomini che seggono al lato dei pari, col titolo di vescovi, l'incarico dei quali è sorvegliare la religione e coloro che la predicano al popolo; e dissi che per questo eminente ufficio il re e i suoi ministri sceglievano i più saggi e stimati membri del clero, noti per la santità della vita e per la profondità della dottrina, veri padri spirituali del popolo.
Quanto all'altra parte del parlamento, la dipinsi come un'assemblea degna d'ogni rispetto che si chiamava Camera dei Comuni e si componeva di gentiluomini liberamente eletti dal popolo in virtù dei loro talenti, del loro ingegno e del loro amor patrio, sì da rappresentare la saggezza della nazione.
Conclusi che questi due corpi costituivano la più augusta assemblea d'Europa e che essa, d'accordo col sovrano, faceva le leggi e provvedeva agli affari di stato.
Quindi descrissi le nostre corti di giustizia dove sedevano i giudici, questi saggi uomini, onorevoli interpreti della legge, che decidevano sulle private contese punendo il delitto e proteggendo l'innocenza; né mi scordai di parlare della saggia ed economica amministrazione delle nostre finanze, e di diffondermi sulle valorose gesta dei nostri soldati e marinai.
Feci infine il calcolo del numero totale dei miei concittadini, sommando i vari milioni d'uomini appartenenti alle diverse religioni e ai differenti partiti politici. Parlai dei nostri giochi e spettacoli, e in genere di tutto ciò che ritenevo facesse onore al mio paese; terminando con un piccolo riassunto storico degli affari e degli avvenimenti d'Inghilterra durante gli ultimi cento anni".
L'interesse nei confronti dei racconti di Gulliver è molto, e il re di Brobdingnag è persona attenta e riflessiva:
"Questi colloqui durarono per cinque udienze, ciascuna delle quali si prolungò per parecchie ore; e sua maestà vi s'interessava molto, prendendo degli appunti di ciò che dicevo e di ciò che aveva intenzione di obiettarmi. Quando ebbi finito, in una sesta udienza, esaminando i suoi appunti, mi propose varie questioni e mi espresse alcuni suoi dubbi su ciascun argomento".
Ecco quindi le considerazioni che l'attento re di Brobdingnag fa in merito a quanto riportato da Gulliver:
"Egli cominciò col domandarmi con quali mezzi si coltivava lo spirito dei nostri giovani nobili e in quali occupazioni passavano la prima parte della loro vita; come si provvedeva allorché una famiglia gentilizia s'era spenta, ciò che ogni tanto doveva pur accadere; quali meriti si richiedevano a coloro che dovevano essere nominati lords, e se un capriccio del sovrano o una buona sommetta data a tempo e luogo a una dama di corte o a un favorito, o anche il desiderio d'avvantaggiare un partito a danno di un altro, non influivano mai su tali nomine; se i pari eran bene istruiti nelle leggi della nazione, sì da poter giudicare senza appello sui diritti dei cittadini; se non peccavano mai d'avidità o di parzialità; se quei venerabili vescovi di cui avevo parlato avevano sempre conquistato quel grado con la scienza teologica o con la santità dei costumi; oppure se quando erano semplici pastori non avevano intrigato, magari giovandosi del fatto d'essere elemosinieri di questo o di quel lord, per la protezione del quale erano stati promossi; e se in questo caso potevano essere liberi dall'influenza di questo protettore o non dovevano servirne le passioni e i pregiudizi in Parlamento.
Quanto agli eletti dei Comuni, volle sapere come venivano nominati, e se il primo venuto, avendo una borsa ben guarnita, non poteva accaparrarsi il suffragio degli elettori col denaro, passando avanti al loro padrone o ai più distinti gentiluomini del paese; domandò anche come si spiegava un desiderio così vivo d'essere eletti, posto che l'elezione doveva costar molto e non rendeva nulla; sicché bisognava, o che questi deputati fossero dotati d'un disinteresse davvero eroico, o che si aspettassero d'esser compensati a usura delle spese fatte, sacrificando il bene pubblico alla volontà di un re malvagio o di corrotti ministri. E su questo punto sua maestà mi fece alcune domande piuttosto imbarazzanti, che non riferisco per prudenza.
Sui nostri tribunali poi volle ampi schiarimenti, ch'io potei fornirgli anche con troppa competenza, avendo avuto una volta un lunghissimo processo alla Cancelleria, da cui uscii quasi rovinato, pur avendolo vinto. Mi domandò quanto tempo occorreva perché si potesse pronunciare la sentenza in una causa; e quanto si spendeva per ciò; se agli avvocati era permesso di difendere le cause evidentemente sballate; se si era mai dato che lo spirito di partito o di confessione avesse pesato sulla bilancia; se quegli avvocati avevano almeno un'idea delle norme e dei primi principi della giustizia, oppure se si contentavano di seguire le leggi arbitrarie e gli usi locali d'ogni paese; se avvocati e giudici avevano il diritto d'interpretare e commentare a loro modo il codice; se le difese e le sentenze non erano spesso totalmente diverse fra loro sopra lo stesso argomento; se la classe dei legali era ricca o povera, se i suoi membri si facevano pagare i propri pareri e il proprio patrocinio, e se finalmente potevano venire eletti deputati dei Comuni.
Passando poi alla gestione delle finanze, mi fece osservare che m'ero certamente ingannato, quando avevo fatto ammontare i redditi delle imposte a cinque o sei milioni di sterline all'anno; mentre le spese del bilancio dello stato andavano molto più in là di questa cifra. Egli infatti non poteva concepire un governo che spendesse più della sua rendita, mangiando il proprio patrimonio come un privato spendereccio. Mi domandò chi erano i nostri creditori e come potevamo pagarli; e mi parve stupefatto nel sentire dei grandi sperperi di denaro che ci avevano recato le nostre guerre.
Egli pensava che dovevamo essere un popolo molto irrequieto e attaccabrighe, oppure che avevamo dei vicini cattivi davvero. «I vostri generali» concluse, «devono essere più ricchi dei vostri sovrani! Ma che cosa avete da sbrigare fuori delle vostre isole? Non potreste contentarvi di commerciare senza pretendere a conquiste? Non vi basta di conservare i vostri porti e le vostre spiagge?» Egli si meravigliava assai che, anche in tempo di pace, mantenessimo un esercito: ciò non gli pareva da popolo libero. Contro chi doveva esso combattere, e di chi avevamo paura, se eravamo governati col nostro pieno consentimento? Una casa privata non è difesa meglio dal suo padrone, dai figli di lui e dalla famiglia, piuttosto che da alcuni furfanti presi a caso per strada dalla feccia della popolazione, con una paga così piccola che avrebbero guadagnato molto di più a tagliarci la gola?
I miei bizzarri calcoli sul numero dei miei concittadini, dedotto dalla somma dei membri delle varie sette politiche o religiose, lo fecero ridere di cuore. Egli non ammetteva che si potesse impedire alla gente d'avere idee contrarie alla sicurezza dello stato, ciò che era tirannia; né che si permettesse loro di professare apertamente tali opinioni, ciò che era debolezza; poiché mentre non si può vietare a nessuno d'avere in casa delle sostanze velenose, gli si può però proibire di farne spaccio. Poiché parlando dei divertimenti dei nostri nobili avevo accennato al gioco, il re mi domandò a che età si cominciava a coltivare questo svago e quando lo si abbandonava; e se portava via molto tempo, se rovinava talora qualche patrimonio, e se faceva commettere qualche azione vile e disonesta; se qualche furfante per la sua destrezza nel gioco poteva acquistare grandi ricchezze e tenere gli stessi lords in una specie di dipendenza, avvezzandoli alle cattive compagnie, distogliendoli dal coltivare il loro spirito e dal curare le faccende domestiche, e magari costringendoli a servirsi di quegli stessi mezzi infami da cui erano stati rovinati, per rimediare alle perdite fatte.
Il racconto dei nostri avvenimenti storici nell'ultimo secolo l'aveva sbalordito, sembrandogli tutta un'orribile catena di congiure, di rivolte, d'omicidi, di stragi, di rivoluzioni, d'esili e di quanti altri terribili fenomeni possono produrre l'avidità, lo spirito di parte, l'ipocrisia, il tradimento, la ferocia, l'ira, la pazzia, l'odio, l'invidia e l'ambizione".
Segue quindi, accuratamente preparata da Swift, la mazzata finale, affidata alle parole del re di Brobdingnag:
"Sicché, nell'udienza seguente, sua maestà – dopo avere ricapitolato tutta la mia descrizione e aver confrontato le obiezioni da lui fatte con le mie repliche – mi prese in mano, e con molta dolcezza mi disse queste parole, che non potrò mai dimenticare:
«Mio piccolo Grildrig, tu hai fatto un magnifico panegirico del tuo paese; tu hai ottimamente dimostrato che ignoranza, pigrizia e disonestà sono talora le sole qualità d'un uomo politico; che le leggi sono spiegate, interpretate e applicate da persone che hanno tutto l'interesse e la capacità di travisarle, imbrogliarle o eluderle; e che se i principi del vostro governo possono sembrare ragionevoli, ormai non si riconoscono più, tanto la corruzione li ha snaturati e offuscati. Mi pare, da quanto mi hai detto, che tra voialtri non sia necessaria alcuna virtù per arrivare ai più alti gradi e poteri, poiché non per i loro meriti sono eletti i pari, non per la religione e dottrina i preti diventano vescovi, né per la prodezza sono promossi i soldati, né per l'onestà i giudici, né per l'amor di patria i senatori, né per la capacità i funzionari di stato».
«Perciò, mentre ammetto che tu, avendo passato molta parte della vita viaggiando, sia esente dai vizi del tuo paese; tuttavia, da quanto posso giudicare dal tuo racconto e per le risposte che hai dovuto fare alle mie obiezioni, credo che la maggior parte dei tuoi concittadini formino la più maligna razza di vermi a cui la natura abbia dato di strisciare sulla faccia della terra»".
E anche depurando le considerazioni da quest'ultimo eccesso verbale, la replica conclusiva affidata a Gulliver non fa che rafforzare, con un capovolgimento logico ad effetto, le considerazioni critiche espresse dal re:
"Se non fosse il grande amore che io nutro per la verità, non seguiterei a narrare di questi colloqui, nei quali dovetti ascoltare pazientemente ogni insulto diretto contro il mio paese, perché qualunque mostra che io facessi di dispetto, non otteneva altro effetto che di provocare il riso. Non vorrei però che si credesse che fosse per colpa mia; era la curiosità del re che mi costringeva a rispondere il meglio possibile alle sue domande, senza contare la riconoscenza e anche la semplice educazione. State certi, però, che io sfuggivo abilmente alle domande più imbarazzanti, e che in ogni caso cercavo di rispondere nel modo più favorevole alla mia patria, seguendo quel criterio di giusta parzialità che, a ragione, Dionigi d'Alicarnasso raccomanda agli storici.
Nulla trascuravo per mettere in luce tutti i pregi e le bellezze dell'Inghilterra, nascondendone i difetti e i malanni; ma gli effetti che ne ottenni con quell'ottimo sovrano non furono troppo consolanti. Bisognava tuttavia compatirlo, pensando com'egli viva separato dal resto del mondo e ignori perciò ogni costume degli altri popoli; difetto d'esperienza, questo, che sarà sempre causa di pregiudizi e di una grettezza di pensiero da cui vanno esenti i paesi più progrediti d'Europa".
Una satira al vetriolo per una sana disillusione in merito alle "magnifiche sorti e progressive" dell'umana gente [3].
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[1] Titolo originale, come si vede nell'immagine: Travels into Several Remote Nations of the World, in Four Parts. By Lemuel Gulliver, First a Surgeon, and then a Captain of Several Ships. London, MDCCXXVI.
https://play.google.com/books/reader?id=mntdAAAAcAAJ
[2] Jonathan Swift. I viaggi di Gulliver. Edizione digitale per il Kindle, pp. 119-124.
[3] "Dipinte in queste rive / son dell'umana gente / le magnifiche sorti e progressive". Giacomo Leopardi. La ginestra o il fiore del deserto. In: Giacomo Leopardi. Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone. Newton & Compton, Roma, 2013, ISBN 978-88-541-1710-5, pp. 200-208.