sabato 28 giugno 2025

I viaggi di Gulliver

Edulcorato ad uso dei bambini nell'età dei "perché" – ai quali non è possibile spiegare che le magagne dell'umana società continuano a persistere 200 anni dopo essere state così formidabilmente descritte da Swift ("perché", direbbero, "papà e mamma, perché ci sono queste magagne?") – e abbandonato dai ragazzi in quanto visto come un raccontino puerile, "I viaggi di Gulliver" [1] merita una rilettura nell'età nella quale le illusioni della giovinezza lasciano il posto a consapevolezza e realismo.


Se nel primo capitolo del libro, "Un viaggio a Lilliput", un Gulliver gigante tra i lillipuziani ci fornisce un assaggio delle magagne dell'umana società, è nella seconda parte – "Un viaggio a Brobdingnag", con Gulliver diventato ora l'equivalente di un lillipuziano tra i giganti – che arriva, al termine del capitolo VI, il grande botto: nel quale la critica incalzante al malandare supera i limiti del contesto politico e sociale specifico in cui viveva Swift per approdare alla universale applicabilità dell'amara conclusione.

Tutto ruota attorno alle cinque udienze che il re di Brobdingnag concede a Gulliver per consentirgli di descrivere al meglio usi, costumi e storia della società da cui proviene [2]:
"S'immagini dunque il lettore quanto rimpiansi di non avere il genio e l'eloquenza di Demostene o di Cicerone, per poter decantare i meriti e le glorie della mia cara patria in modo degno di lei. Cominciai dunque col dire al re che il nostro paese si componeva di due isole che formavano tre potenti regni uniti sotto un solo sovrano, e ciò senza contare le colonie d'America; e insistei molto sulla fertilità della nostra terra e la bontà del nostro clima. 
Passai quindi a descrivere la costituzione del parlamento, diviso in due corpi legislativi, l'uno dei quali, chiamato Camera dei Pari, era composto di nobili signori, padroni delle più belle terre del regno. Accennai alle cure con cui erano educati nelle scienze e nelle armi, perché fossero degni del destino che li faceva consiglieri nati del governo, e potessero partecipare all'amministrazione, entrare nell'alta Corte di Giustizia che non ammette appello, essere insomma i migliori difensori del re e della patria per la fedeltà, l'onestà e il valore loro; assicurai che questi signori formano l'orgoglio e il presidio dello stato, come degni successori dei loro antenati ai quali l'alto titolo era stato dato in ricompensa delle loro imprese. 
Parlai di quei santi uomini che seggono al lato dei pari, col titolo di vescovi, l'incarico dei quali è sorvegliare la religione e coloro che la predicano al popolo; e dissi che per questo eminente ufficio il re e i suoi ministri sceglievano i più saggi e stimati membri del clero, noti per la santità della vita e per la profondità della dottrina, veri padri spirituali del popolo. 
Quanto all'altra parte del parlamento, la dipinsi come un'assemblea degna d'ogni rispetto che si chiamava Camera dei Comuni e si componeva di gentiluomini liberamente eletti dal popolo in virtù dei loro talenti, del loro ingegno e del loro amor patrio, sì da rappresentare la saggezza della nazione.
Conclusi che questi due corpi costituivano la più augusta assemblea d'Europa e che essa, d'accordo col sovrano, faceva le leggi e provvedeva agli affari di stato. 
Quindi descrissi le nostre corti di giustizia dove sedevano i giudici, questi saggi uomini, onorevoli interpreti della legge, che decidevano sulle private contese punendo il delitto e proteggendo l'innocenza; né mi scordai di parlare della saggia ed economica amministrazione delle nostre finanze, e di diffondermi sulle valorose gesta dei nostri soldati e marinai. 
Feci infine il calcolo del numero totale dei miei concittadini, sommando i vari milioni d'uomini appartenenti alle diverse religioni e ai differenti partiti politici. Parlai dei nostri giochi e spettacoli, e in genere di tutto ciò che ritenevo facesse onore al mio paese; terminando con un piccolo riassunto storico degli affari e degli avvenimenti d'Inghilterra durante gli ultimi cento anni".

L'interesse nei confronti dei racconti di Gulliver è molto, e il re di Brobdingnag è persona attenta e riflessiva:
"Questi colloqui durarono per cinque udienze, ciascuna delle quali si prolungò per parecchie ore; e sua maestà vi s'interessava molto, prendendo degli appunti di ciò che dicevo e di ciò che aveva intenzione di obiettarmi. Quando ebbi finito, in una sesta udienza, esaminando i suoi appunti, mi propose varie questioni e mi espresse alcuni suoi dubbi su ciascun argomento".

Ecco quindi le considerazioni che l'attento re di Brobdingnag fa in merito a quanto riportato da Gulliver:
"Egli cominciò col domandarmi con quali mezzi si coltivava lo spirito dei nostri giovani nobili e in quali occupazioni passavano la prima parte della loro vita; come si provvedeva allorché una famiglia gentilizia s'era spenta, ciò che ogni tanto doveva pur accadere; quali meriti si richiedevano a coloro che dovevano essere nominati lords, e se un capriccio del sovrano o una buona sommetta data a tempo e luogo a una dama di corte o a un favorito, o anche il desiderio d'avvantaggiare un partito a danno di un altro, non influivano mai su tali nomine; se i pari eran bene istruiti nelle leggi della nazione, sì da poter giudicare senza appello sui diritti dei cittadini; se non peccavano mai d'avidità o di parzialità; se quei venerabili vescovi di cui avevo parlato avevano sempre conquistato quel grado con la scienza teologica o con la santità dei costumi; oppure se quando erano semplici pastori non avevano intrigato, magari giovandosi del fatto d'essere elemosinieri di questo o di quel lord, per la protezione del quale erano stati promossi; e se in questo caso potevano essere liberi dall'influenza di questo protettore o non dovevano servirne le passioni e i pregiudizi in Parlamento. 
Quanto agli eletti dei Comuni, volle sapere come venivano nominati, e se il primo venuto, avendo una borsa ben guarnita, non poteva accaparrarsi il suffragio degli elettori col denaro, passando avanti al loro padrone o ai più distinti gentiluomini del paese; domandò anche come si spiegava un desiderio così vivo d'essere eletti, posto che l'elezione doveva costar molto e non rendeva nulla; sicché bisognava, o che questi deputati fossero dotati d'un disinteresse davvero eroico, o che si aspettassero d'esser compensati a usura delle spese fatte, sacrificando il bene pubblico alla volontà di un re malvagio o di corrotti ministri. E su questo punto sua maestà mi fece alcune domande piuttosto imbarazzanti, che non riferisco per prudenza. 
Sui nostri tribunali poi volle ampi schiarimenti, ch'io potei fornirgli anche con troppa competenza, avendo avuto una volta un lunghissimo processo alla Cancelleria, da cui uscii quasi rovinato, pur avendolo vinto. Mi domandò quanto tempo occorreva perché si potesse pronunciare la sentenza in una causa; e quanto si spendeva per ciò; se agli avvocati era permesso di difendere le cause evidentemente sballate; se si era mai dato che lo spirito di partito o di confessione avesse pesato sulla bilancia; se quegli avvocati avevano almeno un'idea delle norme e dei primi principi della giustizia, oppure se si contentavano di seguire le leggi arbitrarie e gli usi locali d'ogni paese; se avvocati e giudici avevano il diritto d'interpretare e commentare a loro modo il codice; se le difese e le sentenze non erano spesso totalmente diverse fra loro sopra lo stesso argomento; se la classe dei legali era ricca o povera, se i suoi membri si facevano pagare i propri pareri e il proprio patrocinio, e se finalmente potevano venire eletti deputati dei Comuni. 
Passando poi alla gestione delle finanze, mi fece osservare che m'ero certamente ingannato, quando avevo fatto ammontare i redditi delle imposte a cinque o sei milioni di sterline all'anno; mentre le spese del bilancio dello stato andavano molto più in là di questa cifra. Egli infatti non poteva concepire un governo che spendesse più della sua rendita, mangiando il proprio patrimonio come un privato spendereccio. Mi domandò chi erano i nostri creditori e come potevamo pagarli; e mi parve stupefatto nel sentire dei grandi sperperi di denaro che ci avevano recato le nostre guerre. 
Egli pensava che dovevamo essere un popolo molto irrequieto e attaccabrighe, oppure che avevamo dei vicini cattivi davvero. «I vostri generali» concluse, «devono essere più ricchi dei vostri sovrani! Ma che cosa avete da sbrigare fuori delle vostre isole? Non potreste contentarvi di commerciare senza pretendere a conquiste? Non vi basta di conservare i vostri porti e le vostre spiagge?» Egli si meravigliava assai che, anche in tempo di pace, mantenessimo un esercito: ciò non gli pareva da popolo libero. Contro chi doveva esso combattere, e di chi avevamo paura, se eravamo governati col nostro pieno consentimento? Una casa privata non è difesa meglio dal suo padrone, dai figli di lui e dalla famiglia, piuttosto che da alcuni furfanti presi a caso per strada dalla feccia della popolazione, con una paga così piccola che avrebbero guadagnato molto di più a tagliarci la gola? 
I miei bizzarri calcoli sul numero dei miei concittadini, dedotto dalla somma dei membri delle varie sette politiche o religiose, lo fecero ridere di cuore. Egli non ammetteva che si potesse impedire alla gente d'avere idee contrarie alla sicurezza dello stato, ciò che era tirannia; né che si permettesse loro di professare apertamente tali opinioni, ciò che era debolezza; poiché mentre non si può vietare a nessuno d'avere in casa delle sostanze velenose, gli si può però proibire di farne spaccio. Poiché parlando dei divertimenti dei nostri nobili avevo accennato al gioco, il re mi domandò a che età si cominciava a coltivare questo svago e quando lo si abbandonava; e se portava via molto tempo, se rovinava talora qualche patrimonio, e se faceva commettere qualche azione vile e disonesta; se qualche furfante per la sua destrezza nel gioco poteva acquistare grandi ricchezze e tenere gli stessi lords in una specie di dipendenza, avvezzandoli alle cattive compagnie, distogliendoli dal coltivare il loro spirito e dal curare le faccende domestiche, e magari costringendoli a servirsi di quegli stessi mezzi infami da cui erano stati rovinati, per rimediare alle perdite fatte. 
Il racconto dei nostri avvenimenti storici nell'ultimo secolo l'aveva sbalordito, sembrandogli tutta un'orribile catena di congiure, di rivolte, d'omicidi, di stragi, di rivoluzioni, d'esili e di quanti altri terribili fenomeni possono produrre l'avidità, lo spirito di parte, l'ipocrisia, il tradimento, la ferocia, l'ira, la pazzia, l'odio, l'invidia e l'ambizione".

Segue quindi, accuratamente preparata da Swift, la mazzata finale, affidata alle parole del re di Brobdingnag:
"Sicché, nell'udienza seguente, sua maestà – dopo avere ricapitolato tutta la mia descrizione e aver confrontato le obiezioni da lui fatte con le mie repliche – mi prese in mano, e con molta dolcezza mi disse queste parole, che non potrò mai dimenticare: 
«Mio piccolo Grildrig, tu hai fatto un magnifico panegirico del tuo paese; tu hai ottimamente dimostrato che ignoranza, pigrizia e disonestà sono talora le sole qualità d'un uomo politico; che le leggi sono spiegate, interpretate e applicate da persone che hanno tutto l'interesse e la capacità di travisarle, imbrogliarle o eluderle; e che se i principi del vostro governo possono sembrare ragionevoli, ormai non si riconoscono più, tanto la corruzione li ha snaturati e offuscati. Mi pare, da quanto mi hai detto, che tra voialtri non sia necessaria alcuna virtù per arrivare ai più alti gradi e poteri, poiché non per i loro meriti sono eletti i pari, non per la religione e dottrina i preti diventano vescovi, né per la prodezza sono promossi i soldati, né per l'onestà i giudici, né per l'amor di patria i senatori, né per la capacità i funzionari di stato»
«Perciò, mentre ammetto che tu, avendo passato molta parte della vita viaggiando, sia esente dai vizi del tuo paese; tuttavia, da quanto posso giudicare dal tuo racconto e per le risposte che hai dovuto fare alle mie obiezioni, credo che la maggior parte dei tuoi concittadini formino la più maligna razza di vermi a cui la natura abbia dato di strisciare sulla faccia della terra»".

E anche depurando le considerazioni da quest'ultimo eccesso verbale, la replica conclusiva affidata a Gulliver non fa che rafforzare, con un capovolgimento logico ad effetto, le considerazioni critiche espresse dal re:
"Se non fosse il grande amore che io nutro per la verità, non seguiterei a narrare di questi colloqui, nei quali dovetti ascoltare pazientemente ogni insulto diretto contro il mio paese, perché qualunque mostra che io facessi di dispetto, non otteneva altro effetto che di provocare il riso. Non vorrei però che si credesse che fosse per colpa mia; era la curiosità del re che mi costringeva a rispondere il meglio possibile alle sue domande, senza contare la riconoscenza e anche la semplice educazione. State certi, però, che io sfuggivo abilmente alle domande più imbarazzanti, e che in ogni caso cercavo di rispondere nel modo più favorevole alla mia patria, seguendo quel criterio di giusta parzialità che, a ragione, Dionigi d'Alicarnasso raccomanda agli storici. 
Nulla trascuravo per mettere in luce tutti i pregi e le bellezze dell'Inghilterra, nascondendone i difetti e i malanni; ma gli effetti che ne ottenni con quell'ottimo sovrano non furono troppo consolanti. Bisognava tuttavia compatirlo, pensando com'egli viva separato dal resto del mondo e ignori perciò ogni costume degli altri popoli; difetto d'esperienza, questo, che sarà sempre causa di pregiudizi e di una grettezza di pensiero da cui vanno esenti i paesi più progrediti d'Europa".

Una satira al vetriolo per una sana disillusione in merito alle "magnifiche sorti e progressive" dell'umana gente [3].


----------

[1] Titolo originale, come si vede nell'immagine: Travels into Several Remote Nations of the World, in Four Parts. By Lemuel Gulliver, First a Surgeon, and then a Captain of Several Ships. London, MDCCXXVI.
https://play.google.com/books/reader?id=mntdAAAAcAAJ

[2] Jonathan Swift. I viaggi di Gulliver. Edizione digitale per il Kindle, pp. 119-124.

[3] "Dipinte in queste rive / son dell'umana gente / le magnifiche sorti e progressive". Giacomo LeopardiLa ginestra o il fiore del deserto. In: Giacomo Leopardi. Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone. Newton & Compton, Roma, 2013, ISBN 978-88-541-1710-5, pp. 200-208.

mercoledì 22 gennaio 2025

Galileo opera omnia

Tutte le opere di Galileo Galilei in 17 volumi [1], l'edizione comprende i Tomi I-XV, con il Tomo V suddiviso in due parti, più un Tomo Supplemento. I volumi sono stati pubblicati tra il 1842 (Tomo I) e il 1856 (Supplemento). |PDF|

I https://books.google.it/books?id=OAyQOIzt8N8C
II https://books.google.it/books?id=Dv0FAAAAQAAJ
III https://books.google.it/books?id=HszkNFtmY8kC
IV https://books.google.it/books?id=z5h3mT-TsksC
V.I https://books.google.it/books?id=Rv3Pb7orJcUC
V.II https://books.google.it/books?id=yySouDQxd2gC
VI https://books.google.it/books?id=0_8FAAAAQAAJ
VII https://books.google.it/books?id=Kwa8sTcyIrsC
VIII https://books.google.it/books?id=cFLCKSbe2iwC
IX https://books.google.it/books?id=Fls2mskpeYIC
X https://books.google.it/books?id=YvnvA_-m7vwC
XI https://books.google.it/books?id=PPEsEzl-WY0C
XII https://books.google.it/books?id=brPoCdWewjMC
XIII https://books.google.it/books?id=mM1EAAAAcAAJ
XIV https://books.google.it/books?id=ykDrlQW-lTwC
XV https://books.google.it/books?id=r81EAAAAcAAJ
sup. https://books.google.it/books?id=6QueneUxo_wC
    
Tutti i volumi combinati in un unico file, per semplificare le ricerche all'interno della vasta opera di Galileo. |PDF|
https://www.bayes.it/PASS/1842_Galileo_opera_omnia.pdf


----------

[1] Le Opere di Galileo Galilei. Prima edizione completa condotta sugli autentici manoscritti Palatini e dedicata a S.A.I. e R. Leopoldo II Granduca di Toscana. Firenze. Società Editrice Fiorentina.

Il termoscopio

Due lettere che Sagredo [1] scrive a Galileo documentano i primordi nella misura della temperatura:

GIOAN FRANCESCO SAGREDO. Da Venezia, 30 Giugno 1612 (A Firenze).
"Il sig. Mula  ... mi riferì aver veduto uno stromento dal sig. Santorio, col quale si misurava il freddo ed il caldo [e] mi comunicò questo essere una gran bolla di vetro con un collo lungo..." [2].

GIOAN FRANCESCO SAGREDO. Da Venezia, 9 Maggio 1613 (A Firenze). 
"L'istromento per misurar il caldo inventato da V.S.E. è stato da me ridotto in diverse forme assai comode ed esquisite, in tanto che la differenza della temperie di una stanza all'altra si vede fin cento gradi. Ho con questi speculate diverse cose meravigliose, come per esempio che l'inverno sia più fredda l'aria che il ghiaccio e la neve..." [3].
   
Testimonianze aggiuntive fanno ritenere che lo strumento per misurare "il freddo ed il caldo" sia stato realizzato da Galileo attorno al 1603, ma forse addirittura qualche anno prima, come indicato nel catalogo del Museo Galileo che ne riporta la denominazione di "termoscopio" e una ricostruzione [4].



----------

[1] Giovanni Francesco Sagredo (Venezia, 19 giugno 1571 – Venezia, 5 marzo 1620)

[2] Le opere di Galileo Galilei. Prima edizione completa condotta sugli autentici manoscritti Palatini e dedicata a S.A.I. e R. Leopoldo II Granduca di Toscana. Tomo VIII, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1851, pp. 216-220. |PDF|
https://play.google.com/books/reader?id=cFLCKSbe2iwC

[3] ivi, pp. 269-271.

[4] Museo Galileo. Termoscopio.
https://catalogo.museogalileo.it/oggetto/Termoscopio.html
 

L'occhialino di Galileo

Galileo Galilei nel 1624 scrive al principe Federico Cesi [1], fondatore dell'Accademia dei Lincei, questa lettera [2] che documenta i primordi del microscopio: 
"Firenze, 23 Settembre 1624 – Invio a V. E. un occhialino per vedere da vicino le cose minime, del quale spero ch'ella sia per prendersi gusto e trattenimento non piccolo, che così accade a me. Ho tardato a mandarlo, perchè non l'ho prima ridotto a perfezione, avendo avuto difficoltà nel ritrovare il modo di lavorare i cristalli perfettamente. L'oggetto s'attacca sul cerchio mobile, che è nella base, e si va movendo per vederlo tutto; atteso che quello che si vede in una occhiata è piccola parte. E perchè la distanza fra la lente e l'oggetto vuol essere puntualissima, nel guardare gli oggetti che hanno rilievo bisogna potere accostare e discostare il vetro, secondo che si guarda questa o quella parte, perciò il cannoncino è fatto mobile nel suo piede o guida, che dir la vogliamo. Deesi ancora usarlo in aria molto serena e lucida, e meglio è al Sole medesimo, ricercandosi che l'oggetto sia illuminato assai. Io ho contemplato moltissimi animali con infinita ammirazione: tra i quali la pulce è orribilissima, la zanzara e la tignuola sono bellissime; e con gran contento ho veduto come facciano le mosche ed altri animalucci a camminare attaccati agli specchi, ed anche di sotto in su. Ma V. E. avrà campo larghissimo di osservare mille e mille particolari, de' quali la prego a darmi avviso delle cose più curiose. In somma ci è da contemplare infinitamente la grandezza della natura, e quanto sottilmente ella lavora, e con quanta indicibile diligenza".


Da notare che fu Giovanni Faber [3] a dare "... il nome di Microscopio all'occhialino di Galileo, come il Cesi aveva dato quello di Telescopio all'occhiale" [4].


----------

[1] Federico Cesi, II duca di Acquasparta, II principe di Sant'Angelo e San Polo, II marchese di Monticelli (Roma, 26 febbraio 1585 – Acquasparta, 1 agosto 1630)

[2] Galileo Galilei. Lettera a Federico Cesi, Firenze, 23 settembre 1624. In: Le opere di Galileo Galilei. Prima edizione completa condotta sugli autentici manoscritti Palatini e dedicata a S.A.I. e R. Leopoldo II Granduca di Toscana. Tomo VI, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1847, p. 297. |PDF|
https://play.google.com/books/reader?id=Rv3Pb7orJcUC

[3] Giovanni Faber (Johann Schmidt; Bamberga, 1574 – Roma, 17 settembre 1629)

[4] ivi, p. 184, nota (1)

domenica 19 gennaio 2025

Spazio e tempo (secondo Newton)

 

Nell'anno 1687 nel suo "Philosophiae Naturalis Principia Mathematica" [1] a p. 5 Newton scrive:
"Scholium.
Hactenus voces minus notas, quo in sensu in sequentibus accipiendæ sunt, explicare visum est. Nam tempus, spatium, locum et motum ut omnibus notissima non definio. Dicam tamen quod vulgus quantitates hasce non aliter quam ex relatione ad sensibilia concipit. Et inde oriuntur præjudicia quædam, quibus tollendis convenit easdem in absolutas & relativas, veras & apparentes, Mathematicas et vulgares distingui.
I. Tempus absolutum verum & Mathematicum, in se & natura sua absq; relatione ad externum quodvis, æquabiliter fluit, alioq; nomine dicitur Duratio; relativum apparens & vulgare est sensibilis & externa quævis Durationis per motum mensura, (seu accurata seu inæquabilis) qua vulgus vice veri temporis utitur; ut Hora, Dies, Mensis, Annus.
II. Spatium absolutum natura sua absq; relatione ad externum quodvis semper manet similare & immobile..." [2].



----------

[1] Isaac Newton. Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Londini (i.e. Londra), 1687. 
ETH-Bibliothek Zürich. Signatur: Rar 4011. |PDF|
http://dx.doi.org/10.3931/e-rara-440

[2] "Nota esplicativa.
Finora ho spiegato, per le voci meno note, in che senso devono essere intese nelle pagine seguenti. In verità non definisco tempo, spazio, luogo e moto, in quanto a tutti notissimi. Nondimeno va detto che la persona comune non concepisce queste quantità altrimenti, se non con la loro relazione con le cose sensibili. E di qui sorgono certi pregiudizi, per eliminare i quali conviene distinguerle in assolute e relative, vere e apparenti, matematiche e comuni.
I. Il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per sua stessa natura, senza relazione con alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; il tempo relativo, apparente e comune è la misura, sensibile ed esterna (o accurata o inaccurata), mediante il moto, di una qualche durata che comunemente viene impiegata in luogo del tempo vero; così sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno.
II. Lo spazio assoluto per sua natura, senza relazione con alcunché di esterno, rimane sempre identico e immobile...".

Tempo (secondo Augustinus Hipponensis)

Scrive Agostino d'Ippona [1], attorno al 400 e.v.:
"Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio; fidenter tamen dico scire me, quod, si nihil praeteriret, non esset praeteritum tempus, et si nihil adveniret, non esset futurum tempus, et si nihil esset, non esset praesens tempus. Duo ergo illa tempora, praeteritum et futurum, quomodo sunt, quando et praeteritum iam non est et futurum nondum est? ...
Quod autem nunc liquet et claret, nec futura sunt nec praeterita, nec proprie dicitur: tempora sunt tria, praeteritum, praesens et futurum, sed fortasse proprie diceretur: tempora sunt tria, praesens de praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris. Sunt enim haec in anima tria quaedam et alibi ea non video, praesens de praeteritis memoria, praesens de praesentibus contuitus, praesens de futuris exspectatio..." [2].

"Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? … 
Un fatto è ora limpido e chiaro, né futuro né passato esistono e non è appropriato dire: i tempi sono tre passato, presente e futuro, ma forse sarebbe appropriato dire: i tempi sono tre, presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell'animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa…".


----------

[1] Aurelius Augustinus Hipponensis (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430)

[2] Augustinus Hipponensis. Confessionum libri XIII. Liber undecimus (Commentiatio principii, quo Deus dicitur caelum er terram creavisse), 14.7 e 20.26.
https://www.augustinus.it/latino/confessioni/index.htm

Spazio e tempo (secondo Leibniz)

Scriveva Leibniz nel 1705 [1]:
"... si vede bene che il tempo non è una sostanza, perché un’ora, o qualsiasi altra parte del tempo si prenda, non esiste mai intera e con tutte le sue parti insieme. Non è che un principio dei rapporti, un fondamento dell’ordine nelle cose, in quanto si concepisce la loro esistenza successiva, ovvero senza che esistano insieme. Lo stesso deve valere per lo spazio. È il fondamento del rapporto dell’ordine delle cose, ma in quanto le si concepisce esistere insieme. L'uno e l'altro di questi fondamenti è vero, benché sia ideale…" [2].


----------

[1] Gottfried Wilhelm Leibniz. Sämtliche Schriften und Briefe, Reihe II, Band 4. Leibniz an Kurfürstin Sophie. Hannover, 31 Oktober 1705, p. 345. |PDF|
https://www.uni-muenster.de/Leibniz/DatenII4/II4.pdf

[2] "... on voit bien que le Temps n’est pas une substance puisqu’une heure n’existe jamais toute, ce n’est que un principe de rapports, un fondement de l’ordre des choses qu’on conçoit exister sans exister ensemble. Il en doit estre de meme de l’espace c’est le fondement de l’ordre ou du rapport des choses, mais qu’on conçoit exister ensemble. L’un et l’autre de ces fondements est veritable, quoyqu’il soit ideal...".

mercoledì 15 gennaio 2025

Il cosmo di Aristotele

La concezione del cosmo che – con il supporto fornito successivamente dalla meccanica celeste di Tolomeo – domina incontrastata per ben 1800 anni (ancora nel 1524 verrà riportata nel Cosmographicus liber di Pietro Apiano), è contenuta nell'opera "Il cielo" [1] di Aristotele, composta intorno al 350 a.e.v. 

La terra è sferica:
"... la forma della terra è necessariamente sferica, e lo è anche in quanto tutti i corpi pesanti cadendo formano degli angoli uguali, anziché descrivere traiettorie parallele. Ma questa è la forma naturale della caduta verso ciò che è sferico per natura ... Che la terra sia sferica lo si accerta anche mediante i fenomeni che cadono sotto i sensi. Diversamente le eclissi di luna non presenterebbero le sezioni che vediamo. Ebbene, in occasione delle sue fasi mensili la luna mostra tutti i tipi di divisone (viene infatti tagliata da una linea retta o diviene biconvessa o concava); al momento delle eclissi, invece, ha sempre come linea di delimitazione una linea curva. Di conseguenza, poiché l'eclissi è causata dall'interposizione della terra, è il profilo della terra a determinare tale figura, avendo forma sferica" [ivi, p. 323 (297b)]. 
"Alcuni astri sono visibili in Egitto o in prossimità di Cipro, e invisibili, invece, nelle regioni settentrionali. Peraltro, gli astri che nelle regioni settentrionali appaiono per tutto il tempo, nei luoghi menzionati in precedenza invece tramontano. Da queste osservazioni risulta chiaro non soltanto che la forma della terra è quella di una sfera, ma anche che si tratta di una sfera di modeste dimensioni; altrimenti, gli effetti di uno spostamento tanto piccolo non si manifesterebbero con tale rapidità" [ivi, p. 325 (297b)].

La terra è immobile al centro del cosmo:
"... È dunque evidente che la terra deve trovarsi al centro [del cosmo] e rimanervi immobile: lo provano le ragioni precedentemente illustrate, come pure il fatto che i corpi pesanti lanciati con la forza verso l'alto in linea verticale ricadono al loro punto di partenza, e questo anche se la forza li avesse scagliati a un distanza infinita..." [ivi, p. 317 (296b)]. 

Esiste un motore esterno che genera il movimento circolare che vediamo degli oggetti celesti:
"... Se dunque esiste un movimento semplice, e il movimento circolare è semplice ... deve esistere un corpo semplice che in virtù della sua natura ha la proprietà di muoversi di moto circolare" [ivi, p. 127 (269a)].
"Il corpo primo … che si trova nell'ultima orbita … che si muove di traslazione circolare è sferico ... lo è anche quello che gli è contiguo, perché ciò che è contiguo a un corpo sferico è anch'esso sferico..." [ivi, p. 251 (287a)].
"... E pare che anche il suo nome si sia tramandato fino alla nostra epoca dal tempo degli antichi ... considerando il corpo primo come qualcosa di diverso dalla terra, dal fuoco, dall'aria e dall'acqua, essi hanno chiamato "etere" il luogo più elevato, traendo il nome che gli hanno attribuito dal fatto che scorre sempre, per l'eternità dal tempo" [ivi, p. 139 (270b)].

Le sfere inferiori, concentriche, sono composte da terra, acqua, aria, fuoco e gli astri, ciascuno nella propria sfera e con il proprio movimento, sono composti di fuoco:
"Se infatti l'acqua si trova intorno alla terra, l'aria intorno all'acqua, e il fuoco intorno all'aria, i corpi situati in alto sono anch'essi disposti nello stesso modo" [ivi, p. 255 (287b)].
"...ogni astro è fatto del corpo all'interno del quale si trova ad avere la propria traslazione, dal momento che – abbiamo affermato – esiste un corpo che è portato per natura a muoversi di moto circolare. E come quanti sostengono che gli astri sono ignei si pronunziano in questi termini perché dicono che il corpo superiore è fuoco ... così anche noi parliamo collocandoci nella medesima prospettiva ..." [ivi, p. 267 (289a)].


----------

[1] Aristotele. Il cielo. Bompiani/RCS libri, Milano, 2015, ISBN 978-88-452-9193-7.

La cosmologia da Aristotele al 1500

Nel 1500 per la struttura del "cosmo" vigeva ancora, dopo 1800 anni, la visione aristotelica [1].

Lo documentano il "Cosmographicus liber" di Pietro Apiano [2] pubblicato nel 1524 [3] e la sua successiva riedizione commentata dal cartografo olandese Gemma Frisio [4] dal titolo "Cosmographia Petri Apiani", qui in una ristampa del 1564 [5].


"Il mondo è diviso in due parti: la regione Elementare e la regione Eterea. La regione Elementare, costantemente soggetta alle alterazioni, contiene quattro elementi, la Terra, l'Acqua, l'Aria e il Fuoco. Invece la regione Eterea (che i filosofi chiamano quinta essenza) che con la sua concavità cinge quella elementare, e la cui sostanza resta sempre immutata, avvolge dieci sfere. Delle quali la maggiore circonda sempre sfericamente (nell'ordine che segue) la minore a lei prossima. Pertanto come prima cosa attorno alla sfera del fuoco Dio creatore del mondo collocò la sfera della Luna: quindi quella di Mercurio: dopo quella di Venere e quella del sole, quindi quella di Marte, di Giove e di saturno: ciascuna di esse tuttavia ha una sola stella ... segue quindi il firmamento, che è la sfera delle stelle ... Circonda questa la nona sfera, che poiché in essa non si discernono stelle, viene denominato cielo cristallino o acqueo. Infine, queste sfere eteree sono avvolte dal primo mobile, che è denominato decimo cielo, e gira continuamente sui poli del mondo compiendo una rivoluzione nell'intervallo di 24 ore, dal sorgere attraverso il mezzogiorno al tramonto e  nuovamente tornando da oriente. E con la sua forza circonda contemporaneamente tutte le sfere inferiori, e in esso non esiste alcuna stella ... Al di là di questo qualunque cosa vi sia, è immobile, e i nostri professori della fede ortodossa affermano [questo] essere il cielo Empireo (che Dio abita con gli eletti)" [6].

In questa teoria, che ai primi del 1500 nessuno metteva in discussione, restavano comunque due problemi.

Il primo problema era che la visione aristotelica geocentrica del cosmo si reggeva sulla meccanica celeste di Tolomeo [7], che impiegava un farraginoso accrocco di sfere, cicli ed epicicli per rappresentare i moti dei pianeti sullo sfondo delle stelle fisse – con una approssimazione che poteva anche essere ritenuta ragionevole per le esigenze dell'epoca, ma in assoluto era ancora inadeguata. Problema che verrà affrontato da Copernico con il suo "De revolutionibus orbium celestium" del 1543 mettendo al centro del cosmo il sole anziché la Terra e innescando il processo che attraverso Keplero, Galileo e Newton riuscirà finalmente a demolire la visione aristotelica dal cosmo, aprendo la strada alla scienza moderna. 

Il secondo problema era l'assunto della immutabilità della sfera della stelle fisse che stava diventando sempre più difficile da sostenere a causa della comparsa di "nuove stelle", che oggi sappiamo essere le supernove, stelle che esplodono rilasciando quantità di energia e di luce che in alcuni casi - come ad esempio quello descritto dagli astronomi cinesi nel 1054 per la supernova di cui oggi vediamo i residui nella Nebulosa del Granchio - le rende osservabili a occhio nudo, e che è stato possibile spiegare solamente con la fisica nucleare del XX secolo e con la più recente cosmologia.


----------

[1] Aristotele. Il cielo. Bompiani/RCS libri, Milano, 2015, ISBN 978-88-452-9193-7.

[2] Peter Bennewitz, latinizzato in Petrus Apianus (Leisnig, 16 aprile 1495 – Ingolstadt, 21 aprile 1552)

[3] Pubblicato nel 1524 con il titolo "Cosmographicus liber Petri Apiani Mathematici studiose collectus". |PDF|
https://preserver.beic.it/delivery/DeliveryManagerservlet?dps_pid=IE7922157
e qui in una edizione del 1528 |PDF|
https://archive.org/details/Cosmographicusl00Apia/

[4] Jemme Reinerszoon Frisius (Dokkum, 9 dicembre 1508 – Lovanio, 25 maggio 1555)

[5] L'immagine riportata è tratta dall'edizione del 1564 "Cosmographia Petri Apiani". |PDF|
https://archive.org/details/cosmographiaapia00apia/

[6] "Mundus bifariam dividitur, in Elementarem regionem, & Ætheream. Elementaris quidem assiduè alterationi subiecta, quatuor Elementa, Terram, Aquam, Aërem, & Ignem, continet. Ætherea autem regio (quam Philosophi quintam nuncupant essentiam) elementarem sua concavitate ambit, invariabilisque substancia semper manens, decem sphæras complectitur. Quarum maior semper proximam minorem sphæricè (eo quo secuit ordine) circundat. Imprimis igitur circa sphæram ignis, Deus mundi opifex locavit sphærulam Lunae: Deinde Mercurialem: Postea Veneream, solarem: Deinde Martiam, Iouiam, & saturniam: quælibet autem istarum unicam tantùm habet stellam ... Mox sequirur firmamentum, quod stellifera sphæra est ... Illam circundat nona sphæra, quæ quum nulla in ea stellarum cernitur, cœlum crystallinum seu aqueum appellatur. Istas tandem æthereas sphæras, primum mobile, quod & decimum cœlum dicitur, suo ambitu amplectitur, & continuè super polos mundi semel facta revolucionem in 24 horarum intervallo, ab ortu per meridiem in occasum, iterum in orientem recurrendo rotatur. Et omnes inferiores sphæras suo impetu simul circumvoluit, nullaque in eo existit stella ... Ultra hunc quicquid est, immobile est, & Empyreum cœlum (quem Deus cum electis inhabitat) nostæ orthodoxæ fidei professores esse affirmant".
       
[7] Claudio Tolomeo (Pelusio, 100 e.v. circa – Alessandria d'Egitto, 168 circa)

domenica 12 gennaio 2025

Micrographia

Il 28 novembre 1660 viene fondata a Londra la Royal Society allo scopo di promuovere l'eccellenza scientifica. 

Quattro anni dopo, il 23 novembre del 1664 viene emesso dalla Società l'ordine di stampa per la prima grande opera, “Micrographia” [1] realizzata Robert Hooke: “By the Council of the ROYAL SOCIETY of London for Improving of Natural Knowledge. Ordered, That the Book written by Robert Hooke, M.A. Fellow of this Society, Entituled, Micrographia, or some Physiological Descriptions of Minute Bodies, made by Magnifying Glasses, with Observations and Inquiries thereupon, Be printed by John Martyn, and James Alleſtry, Printers to the said Society. Novem. 23. 1664. - BROUNCKER. P.R.S.


Alla pagina 112 dell'opera, uscita nel 1667, si legge: “Observ. XVIII. Of the Schematisme or Texture of Cork, and of the Cells and Pores of some other such frothy Bodies. I Took a good clear piece of Cork, and with a Pen-knife sharpen'd as keen as a Razor, I cut a piece of it off, and thereby left the surface of it exceeding smooth, then examining it very diligently with a Microscope ...” [2].


E alla pagina seguente Hooke continua “... our Microscope informs us that the substance of Cork is altogether fill'd with Air, and that that Air is perfectly enclosed in little Boxes or Cells distinct from one another...” [3]. 

Hooke lascia così in eredità la denominazione "cellula" che verrà da allora impiegata per indicare il mattone microscopico con cui sono formati i tessuti (per i mattoni molecolari della cellula sarà necessario ancora molto tempo).

Questo è il dispositivo, uno dei primi microscopi, impiegato da Hooke, che lo illustra all'inizio di “Micrografia” spiegandone le modalità di utilizzo. 


Nonostante la paternità del microscopio sia oggetto di controversia, il microscopio di Hooke era stato probabilmente influenzato da Anton van Leeuwenhoek [4] – olandese, commerciante di tessuti, dei quali controllava le caratteristiche inizialmente impiegando lenti in grado di ingrandire, diventato rapidamente in grado di costruirsi microscopi che impiegava per un uso personale, attratto irresistibilmente com'era dalle meraviglie del "piccolo" – che poco più che trentenne nel 1663 aveva inviato alla Royal Society una memoria, entrando in contatto con Robert Hooke. 

Certo è che da allora "microscopio" e "cellula" diventano due delle principali parole chiave della biologia.


----------

[1] Robert Hooke. Micrographia. London, 1667. |PDF|
https://play.google.com/books/reader?id=W5FqAAAAMAAJ

[2] "Osservazione XVIII. Dello Schematismo o Tessitura del Sughero, e delle Cellule e dei Pori di altri simili corpi schiumosi. Ho preso un buon pezzo di sughero chiaro, e con un coltellino affilato come un rasoio, ne ho tagliato un pezzo, lasciandone così la superficie estremamente liscia, quindi esaminandolo molto diligentemente con un microscopio ..."

[3] "... il nostro microscopio ci informa che la sostanza del sughero è completamente piena di Aria, e che quell'Aria è perfettamente racchiusa in piccole Scatole o Cellule distinte l'una dall'altra..."

[4] Anton van Leeuwenhoek (Delft, 24 ottobre 1632 – Delft, 27 agosto 1723).